#cinemaCHve 2018 – I documentari di Olmo Cerri e Pierre-François Sauter

Lettere che “non hanno l’età” : quattro storie e una cantante

da sentieriselvaggi.it articolo di Luca Galano

Diverso il percorso seguito da Olmo Cerri, giovane regista nato a Lugano nel 1984, collaboratore di lungo corso della Radiotelevisione Svizzera e con all’attivo esperienze con il magazineFalò”, con la trasmissione “Patti Chiari”, con CultTV e con altre testate. Nel 2014 gli è stata assegnata la borsa di scrittura per documentari SSA per il progetto di documentario Non ho l’Età, prodotto da Amka Film SA. Presentato in concorso alla 53a edizione del Solothurner Filmtage (Giornate del Cinema di Soletta) e alla 48a rassegna Visions du Réel del Festival International de Cinéma di Nyon – nella sezione Helvétiques – il documentario è distribuito nei cinema delle tre regioni linguiste da novembre 2017.

Timeline-100090002Racconta il regista: “Non posso far finta che questa storia non mi appartenga. Come tanti ticinesi sono figlio dei flussi migratori che hanno portato le persone ad andarsene dal proprio paese d’origine per stabilirsi in Svizzera. La tematica di questo documentario tocca profondamente le mie corde e si inscrive nel mio più ampio progetto operativo e di ricerca. Come interagiscono storie individuali personali e storia collettiva? Come le scelte politiche di una nazione vanno a influenzare i percorsi esistenziali dei singoli? Penso che questo tema, sicuramente già esplorato da molti altri registi in opere di indubbio valore, se affrontato da un punto di vista nuovo e originale, come quello che ci proponiamo di offrire con questo nostro lavoro, possa fornire materiale di riflessione e spunti importanti per lo spettatore, anche e soprattutto oggi. Credo che il film possa anche fornire una nota di speranza. Nonostante le difficoltà, nel giro di una generazione o due, l’integrazione è possibile. E i migranti possono diventare elementi di ricchezza a tutti gli effetti per la società di accoglienza”.

Singolare lo spunto che ha ispirato Cerri e la sceneggiatrice Simona Casonato. Nel 2011 una giovane ricercatrice in storia, Daniela Delmenico, si laureò all’Università di Losanna con la tesi “Ammiratori italiani sfortunatamente all’estero. Lettere a Gigliola Cinquetti dalla Svizzera”. Il lavoro passava in rassegna le quasi 150 mila lettere indirizzate alla celebre cantante veronese da immigrati italiani tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta e che la famiglia Cinquetti ha avuto la lungimiranza di conservare e catalogare, donandole infine al Museo Storico del Trentino, il cui Archivio della Scrittura Popolare ha appunto l’ambizione di ricostruire la storia “dal basso”, attraverso, tra l’altro, lettere e diari. Il regista ne è venuto a conoscenza attraverso un dossier pubblicato sul sito dell’Associazione Ticinese degli Insegnanti di Storia e ha immediatamente avviato le ricerche per estrapolare da questa miriade di documenti un nucleo che si prestasse, emotivamente e storicamente, ad essere rappresentato in una narrazione filmica. Sono state così scelte le storie di quattro italiani emigrati in Svizzera, i calabresi don Gregorio Montillo e Carmela Schipani, originari rispettivamente di Montepaone e di Montauro in provincia di Catanzaro, la mantovana Lorella Previero e le venete Maria e Gabriella Brasson, madre e figlia. La narrazione ha inizio nel 1964, l’anno dell’apertura del traforo del Gran San Bernardo, della villeggiatura di massa a bordo della Seicento, dei primi topless sulle spiagge italiane e, soprattutto, del trionfo di Gigliola Cinquetti al Festival di Sanremo con la canzone “Non ho l’Età”, brano destinato ad ottenere un clamoroso successo anche in Europa con la vittoria dell’Eurovision Song Contest.

dongrnonhoIl regista luganese sceglie la forma “classica” del documentario, intercalando le testimonianze dirette affidate alla voce dei protagonisti con immagini di archivio, sequenze da vecchi film e frammenti di quotidianità cogente. Diversamente dalla confezione estetica e più squisitamente cinematografica del lavoro di Sauter, Cerri privilegia il racconto, la storia. E dimostra di conoscere bene la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera negli anni Cinquanta e Sessanta, anche cinematografica e documentaristica, omaggiando le istantanee di vita italiana a Zurigo di Kurt Früh e, soprattutto, i documentari di Alexander J. Seiler, Die Italiener (Siamo Italiani) (1964) – scritto e diretto in collaborazione con Robert Gnant e June Kovach – e Il Vento di Settembre (2002), in cui Seiler riprende le vicende degli immigrati che aveva filmato quaranta anni prima e quelle dei loro discendenti. Il racconto di Cerri passa così attraverso le sofferenze, i sacrifici, le privazioni degli immigrati e la durezza e la diffidenza delle autorità svizzere – politiche e di polizia –  già denunciate nel libro-inchiesta pubblicato dallo stesso Seiler, con il medesimo titolo del documentario e ad esso di poco successivo, con una prefazione di Max Frisch contenente la denuncia di questa situazione (“si sono volute delle braccia, ma sono degli uomini che sono venuti”) – e il clima intimidatorio e xenofobo ingenerato a cavallo tra anni Sessanta e Settanta da James Schwarzenbach, esponente di spicco della destra e capo dell’Azione Nazionale, responsabile di una campagna contro l’“inforestierimento” che portò al referendum del giugno 1970 (la proposta, bocciata dal 54 per cento dei votanti, avrebbe comportato l’espulsione dalla Svizzera di 300.000 stranieri). Ma sullo sfondo, spesso cupo e doloroso, della storia collettiva, delle grandi questioni ideologiche e dei profondi rivolgimenti socio-politici di quegli anni ciò che si staglia con nitidezza ed impellenza narrativa sono le esperienze individuali dei quattro protagonisti: un sacerdote che ha studiato teologia a Coira e ha officiato per anni in quella città, anche a causa della presenza di una folta comunità italiana, prima di far ritorno a Catanzaro; una sarta e designer che per anni ha gestito un negozio di tessuti e tendaggi a Bienne, città dove sono nati, cresciuti e dove hanno studiato i suoi figli; un’operatrice turistica stagionale che vive da sola nella casa acquistata con grossi sacrifici dai suoi genitori e che racconta la loro storia, quando, senza permesso, avevano dovuto lasciare Locarno, dove lavoravano, e andare a vivere a Piaggio Valmara, facendo, quotidianamente e per molti anni, i frontalieri; un’ex operaia vissuta per anni a Glattbrugg, rientrata in Italia con la famiglia in seguito all’“iniziativa Schwarzenbach”, ma ritornata poi in Svizzera, a due passi da Zurigo, dove vive tuttora. La Cinquetti, indissolubilmente legata al documentario, non vi compare: una scelta condivisibile e in linea con il taglio voluto dal regista, quello di una pellicola che parlasse degli “umili”, di persone comuni che non hanno vinto rassegne canore e venduto milioni di dischi, ma che hanno dispiegato i loro talenti e il loro spirito di integrazione nel guadagnarsi rispettabilità e fiducia.

01. Non ho l'età_previewMa cosa spingeva così tante persone a scrivere lettere ad una cantante sedicenne? Cerri si sofferma poco su questo aspetto, sul legame tra fan e star, nella stessa epoca in cui, oltremanica, impazzavano i Fab Four e si gettavano le basi della Swinging London a venire. Certo, quella è un’altra storia, ma sarebbe stato interessante approfondire questa “mitizzazione” tutta italiana: la Cinquetti adolescente che sfonda nel mondo della musica e fa gola alle più importanti case discografiche europee è un modello “femminista” da seguire per tante giovani donne; la Cinquetti “acqua e sapone” nei lineamenti e nelle mises, timida, misurata, almeno in apparenza ingenuamente candida è l’immagine della “ragazza della porta accanto” che tanto piace ai genitori; al tempo stesso, la Cinquetti tenera e giovanissima è un “cerbiatto” che entra nell’immaginario erotico maschile di tanti italiani soli e all’estero. Chi le scrive è perché chiede un aiuto economico per fare fronte ai debiti o per aprire un’attività, o perché – attraverso la cassa di risonanza mediatica che si è conquistata – rivolga degli appelli per sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema dell’immigrazione, o ancora perché, con la sua voce e le sue melodie, porta sollievo e speranza nelle comunità italiane in terra straniera. C’è poi chi vuole semplicemente un autografo, chi le fa proposte di matrimonio, chi la invita a diventare confidente epistolare. Eppure, Gigliola resta lontana, all’orizzonte, un’immagine in bianco e nero come nello spezzone televisivo che la ritrae cantare la sua canzone più popolare in quel lontano 1964. Dopo tutto, Cerri documenta il passato per raccontare il presente dei protagonisti. E, forse, anche della storia, quella collettiva: “Mi sono spesso chiesto a cosa potesse servire, oggi, raccontare queste storie che appartengono al passato. A questo proposito, ricordo alcuni momenti in cui, durante le riprese, è arrivata, inaspettata, la risposta. Per esempio, quando eravamo in Calabria a girare, e c’è stato uno sbarco di migranti, o ancora quando durante un viaggio in treno, a Chiasso, abbiamo visto un gruppo di migranti che cercava di proseguire il viaggio verso nord, o ancora con don Gregorio, che dà una mano presso un centro di accoglienza. Abbiamo così capito che lo scopo del documentario doveva anche essere quello di mostrare che l’integrazione può essere lunga e molto difficile, ma che è possibile, e che, alla fine, è un vantaggio per tutti”.

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