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NON HO L’ETÀ di Olmo Cerri

Presentato al Cinema Svizzero a Venezia 2018, dopo un percorso festivaliero partito da Visions du Réel e passato per Solothurner Filmtage, Non ho l’età del giovane filmmaker Olmo Cerri racconta storie di migrazioni tra Italia e Svizzera, partendo dalla canzone cult di Gigliola Cinquetti. Ed è facile scorgere un riferimento alla situazione attuale.

Carmela, don Gregorio, Gabriella e Lorella sono arrivati in Svizzera a metà degli anni Sessanta, al culmine della grande ondata migratoria. E qui hanno vissuto gli anni di Schwarzenbach ascoltando la giovanissima cantante Gigliola Cinquetti, diventata celebre dopo la vittoria del Festival di Sanremo 1964. Quattro storie che si incrociano sulle note di una delle canzoni più popolari dell’epoca e che raccontano di speranze, sogni, solidarietà, ma anche (e soprattutto) di chiusura, xenofobia, clandestinità e sfruttamento. 

Molti di noi, ci insegna Edgar Reitz, si portano dietro due “heimat”, due patrie, quella di nascita, d’origine, che non abbiamo scelto, e quella d’adozione cui ci si è trasferiti per motivi di lavoro, sentimentali o cui si è stati costretti a trasferirsi. Questa dualità, questa scissione è quella che portano nel cuore i personaggi di Non ho l’età, protagonisti del film documentario del giovane filmmaker Olmo Cerri presentato al Cinema Svizzero a Venezia. Anonimi e ordinati palazzi di vetro e paesini che si sviluppano in pendenza con edifici fatiscenti in costruzione, Italia e Svizzera, passato e presente, il Festival di Sanremo degli anni Sessanta e la tv locale di Crotone di oggi, cachi e fichi d’india, Rinascimento a Mantova e wellesiani orologi a cucù. Tutti questi elementi si incrociano nelle storie di Carmela, don Gregorio, Gabriella e Lorella, partendo da un fulcro comune, quel “Cara Gigliola ti scrivo”, le loro lettere spedite a Gigliola Cinquetti, entrata nel mito della cultura popolare italiana con la canzone Non ho l’età, e selezionate nell’archivio del Museo Storico di Trento, tra le tante migliaia che fanno parte del fondo donato dalla cantante.

Olmo Cerri usa sapientemente il montaggio alla Griffith per saltare da un personaggio all’altro, tra vita presente e ricordi, anche con uso di materiali di repertorio, vecchie fotografie e soprattutto le lettere, ricordi di Svizzera e Italia di chi è ritornato al paese natìo e di chi è rimasto tra i cantoni elvetici, anche in una casa si riposo. Il regista sa cogliere e rendere con delicatezza e sincerità quella nostalgia che trapela dagli occhi di queste persone, partendo dalla rilettura di quelle lettere che sono come delle madeleine proustiane, ingiallite, scritte a mano o con la macchina da scrivere. Una malinconia che si incarna in una canzone simbolo, che fa parte del patrimonio culturale popolare italiano, che unisce e rende il senso della madrepatria lontana.

C’è poi l’aspetto politico, a tesi, del film. L’Italia xenofoba di oggi è come la Svizzera di ieri, gli italiani hanno dimenticato il loro passato di emigrazione. I richiami nel film sono vari, da don Gregorio che, ormai ristabilitosi in Italia, chiacchiera con gli emigrati africani, dalla parte di chi ha vissuto la stessa situazione, e la rievocazione dell’uomo politico svizzero James Schwarzenbach, fautore della campagna contro l’inforestierimento, antenato dei vari Salvini e Le Pen di oggi. Che avrebbe sottoscritto un’altra canzone di Gigliola Cinquetti, quella che dice “e qui comando io e questa è casa mia, ogni dì voglio sapere chi viene e chi va”. In quest’ottica Olmo Cerri evita comunque il facile manicheismo alla Pane e cioccolata, evocando sì alcune situazioni, le baracche in cui venivano stipati i lavoratoi, analoghe al pollaio di Nino Manfredi nel film di Franco Brusati, ma anche altre più dignitose, di chi dice di non essersi mai sentito non a suo agio.

Quello che non rimane completamente risolto nel film è proprio il ruolo di Gigliola Cinquetti, che risulta poco più che un MacGuffin, una semplice suggestione sul modello di Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi. Non se ne sviluppano le potenzialità, il contrasto tra una vita difficile e la ragazza di successo, la cantante bambina costretta a vendere la propria vita allo star system, secondo una pratica diffusa nel mondo dello spettacolo dell’epoca. Anni dopo successe a Nada come ben raccontato nel documentario Il mio cuore umano di Costanza Quatriglio. E nemmeno sono sviluppati i motivi che portarono i protagonisti a scriverle: cosa volevano da lei? E come hanno reagito non avendo presumibilmente avuto risposta? Fatto salvo che si trattava di un fenomeno di costume cui non erano esenti nemmeno i sacerdoti. “Cosa si deve inventare, per poter riderci sopra, per continuare a sperare” cantava qualcun’altro…

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