Corriere del Ticino – 22.04.17

Non ho l’età: «Cara Gigliola, ti prego aiutami tu se puoi»

L’INTERVISTA III OLMO CERRI* «Cara Gigliola, ti prego aiutami tu se puoi» Un documentario sulle lettere inviate alla Cinquetti dagli emigrati italiani in Svizzera DIALOGO FRA GENERAZIONI Un momento del film del regista ticinese che sarà presentato in anteprima questa sera al festival Visions du Réel di Nyon. Chi non ne ha mai canticchiato la melodia, magari orecchiata alla radio, ricordandosi solo le parole del titolo: «Non ho l’età»? La canzone vincitrice del Festival di Sanremo 1964 fa parte ancora oggi della memoria collettiva (all’epoca vendette 1 milione di copie in tutto il mondo e venne tradotta in oltre 20 lingue) e sconvolse letteralmente la vita della sua interprete, la sedicenne veronese Gigliola Cinquetti, che sull’arco di una quindicina d’anni ricevette oltre 140 mila lettere dai suoi ammiratori sparsi ovunque. Oggi questo incredibile patrimonio è depositato al Museo storico del Trentino e da lì è partito il regista ticinese Olmo Cerri per realizzare il suo nuovo documentario intitolato appunto Non ho l’età, produzione Amka Films con RSI, REC e Tempesta, che sarà presentato in prima mondiale oggi alle 20.30 (Grande Salle della Colombière) nell’ambito del concorso svizzero del festival Visions du Réel di Nyon con replica domani alle 10.30 al Capitole Fellini.

Lo abbiamo incontrato. ANTONIO MARIOTTI III Cosa l’ha spinta a girare un film sull’emigrazione italiana in Svizzera? «C’era questo bellissimo pretesto legato alla canzone di Gigliola Cinquetti e all’archivio delle sue lettere, ma è anche vero che la mia famiglia – come quelle di moltissimi altri ticinesi – ha in qualche modo incrociato delle storie di emigrazione. Nel mio caso ho la nonna materna che è partita dal Veneto e che è arrivata in Svizzera più o meno negli stessi anni dei nostri protagonisti. Io mi sono sempre sentito svizzero e basta, però occuparmi di questo tema è stato anche un modo per riflettere sulla mia storia familiare».

Come è venuto a conoscenza dell’esistenza dell’archivio delle lettere scritte a Gigliola Cinquetti? «Grazie al sito dell’ATIS, l’Associazione ticinese degli insegnanti di storia, che ha pubblicato un approfondimento sulla tesi di laurea all’Università di Losanna di Daniela Delmenico, una ricercatrice malcantonese che ha studiato queste lettere come fonti per la storia della scrittura popolare degli emigranti italiani in Svizzera. Lei aveva già fatto un’importante selezione nell’ambito di un archivio sterminato per dar vita a un lavoro scientifico, mentre io mi sono potuto permettere di evidenziare di più la dimensione emotiva della questione». Come è riuscito a ritrovare le tracce delle persone che avevano scritto alla cantante, o dei loro discendenti? «Prima di tutto ho scartato tutte le lettere i cui autori le chiedono solo un autografo o le fanno i complimenti, per concentrarmi su quelle che avevano un maggiore contenuto narrativo. Poi è iniziato un lavoro lungo diversi mesi, insieme alla cosceneggiatrice Simona Casonato, durante i quali abbiamo telefonato a centinaia di persone basandoci su indizi molto sottili: il timbro postale ad esempio, oppure il nome del datore di lavoro citato nella lettere e per fortuna qualcuno di questi ultimi conservava ancora la lista dei nomi dei dipendenti di allora.

È stata una vera e propria investigazione e infatti non abbiamo ritrovato tantissime persone ma per fortuna abbiamo individuato quattro storie belle e diverse fra loro». In quasi tutte le storie del suo film è coinvolta anche la generazione successiva, quella dei figli di chi ha scritto le lettere: come hanno reagito magari scoprendo un fatto di cui non erano a conoscenza? «Certamente siamo andati a toccare degli aspetti della vita famigliare non fra i più felici: a Gigliola chiedevano spesso soldi, e quindi emerge un passato di povertà e anche di ingenuità perché scrivere a lei per cercare di risolvere i propri problemi è come fare una preghiera. Per molti emigranti la figura della Cinquetti si avvicinava a quella della Madonna evidentemente. Penso però che i figli siano stati felici di ritrovare quelle lettere poiché oggi sono tutti perfettamente integrati e quindi è un passato che non fa più così paura».

Il rapporto di odio-amore nei confronti della Svizzera sussiste ancora oggi tra gli emigrati di allora? «Sì, è una costante: c’è grande riconoscenza verso la Svizzera come Paese di accoglienza, ma si capisce anche che devono averne vissute di cotte e di crude, non solo in relazione alle iniziative Schwarzenbach, ma pure per ciò che riguarda la diffidenza e il razzismo di molte persone, contrappuntato però dal comportamento di altri che con cuore hanno saputo accogliere gli italiani e aiutarli nei momenti di difficoltà – e nel film c’è un bell’esempio in questo senso. Per me è questo il discorso più interessante, anche rispetto ai flussi migratori di oggi che vediamo come una massa di cui abbiamo paura, che non capiamo. Bisogna cercare di gettare le basi affinché l’integrazione di queste persone possa aver luogo, anche se ci vorrà del tempo, magari una generazione, anche se la situazione economica odierna è molto diversa da quella degli anni ’60 e rende tutto più difficile. Ciò non toglie che esistano dei parallelismi impressionanti: con uno dei personaggi del film abbiamo girato una scena alla stazione di Chiasso ricordando i controlli e le file di allora, ebbene in quello stesso momento c’erano i migranti eritrei e del Nordafrica che subivano dei controlli esattamente negli stessi luoghi».

* regista e sceneggiatore Da questi scritti emerge un passato fatto di povertà ma anche di ingenuità IL SENSO DELLA BELLEZZA Oltre a Non ho l’età, Amka Films ■* presenta in anteprima un altro documentario al festival Visions du Réel di Nyon: mercoledì 26 aprile alle 16.30 al Théàtre de Marens sarà proiettato II senso della bellezza di Valerio Jalongo. Il film sarà replicato giovedì 27 alle 10 nella Grande Salle della Colombière. Al CERN di Ginevra, diecimila scienziati di tutto il mondo lavorano intorno alla più grande macchina mai costruita dall’uomo alla ricerca di ciò che ha dato origine al nostro universo un milionesimo di secondo dopo il Big Bang. Cosi, l’infinitamente piccolo e la vastità dell’universo schiudono le porte di un territorio invisibile, dove gli scienziati sono guidati da qualcosa che li accomuna agli artisti tra indagine, immaginazione e autentico esercizio di libertà..

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